"La chiesa si riempiva di gente ogni domenica"


Analisi di una Chiesa umiliata. Proponiamo di seguito alcuni stralci del denso intervento tenuto dal cardinale arcivescovo di Vienna Schonborn il 10 dicembre 2013 nel Duomo di Milano. Tra le tante riflessioni proposte, molte delle quali discutibili e forse troppo spinte, abbiamo voluto sottolineare la lucidità con cui il cardinale ha dipinto la drammatica situazione della Chiesa austriaca "un tempo chiesa di stato, imperiale”, non molto lontana da quella italiana, se non sua profetica anteprima.

[..] Comincio con un breve accenno alla diocesi di Vienna, dove siamo solo poco più di un milione di fedeli. La decrescita dei cattolici a Vienna è drammatica. Siamo ormai sotto il quaranta per cento, e tra non molto arriveremo al trenta per cento. E questo per tre ragioni fondamentali: innanzitutto la demografia, che colpisce quasi tutte le confessioni religiose. In secondo luogo, un fenomeno sempre più diffuso è rappresentato dall’uscita civile dalla chiesa. Da noi, in Austria, basta andare da un magistrato e non sei più cattolico. Qualcuno lo fa perché non vuole più pagare le tasse, altri perché già da tempo non partecipano alla vita della chiesa cattolica. Ogni anno perdiamo l’uno per cento di cattolici, gente che defeziona. Non dico che è apostasia, ma è drammatico. In dieci anni, con questo trend, avremo perso più del dieci per cento di cattolici. Terza e ultima ragione, la continua perdita di prassi religiosa, cui hanno contribuito anche i gravi scandali che hanno ferito molti fedeli. Anche il mio predecessore Hans Hermann Groër dovette lasciare l’incarico di arcivescovo in seguito alle accuse di pedofilia. Siamo diventati poveri, umiliati. Poveri non economicamente, ma umanamente. E’ una chiesa scoraggiata.
Quando sono entrato nell’ordine domenicano [...] avevamo quattro conventi domenicani in Austria, oggi ne rimane uno solo. Gli altri tre sono stati chiusi. E’ un dolore, ma nello stesso tempo, durante il mio episcopato, abbiamo potuto fondare quattro nuovi monasteri a Vienna, di nuove comunità monastiche. Loss and gain, diceva John  Henry Newman, perdita e guadagno. Come vivere, allora, questa situazione di chiesa umiliata, diminuita, scoraggiata? Come uscirne? Penso che il Signore ci abbia condotto su un cammino in cui chiede di non concentrarci sui problemi, ma di ricordarci ciò che Dio fa per noi.
[...]
Ecco perché dico che bisogna cambiare lo sguardo. Penso che la condizione della nuova evangelizzazione sia cambiare lo sguardo, guardare altrove. Non ho il tempo di confessare pubblicamente i miei sbagli nella missione, farò solo un esempio, risalente a tre o quattro anni fa. Andavo in treno da Innsbruck a Vienna. A bordo c’era un gruppo di giovani che mi hanno riconosciuto. Erano diciottenni che avevano già bevuto un po’, mi hanno sbeffeggiato. Io avevo il mio breviario e volevo essere lasciato essere in pace, stavo pregando. Allora ho fatto uno sforzo per concedere loro almeno un sorriso. A Salisburgo sono scesi tutti. Dovevano fare la maturità e andavano a festeggiare in Turchia, dove si fa tutto, si beve, e altro. Quando sono scesi dal treno, ho cominciato a piangere. Ho detto: “Signore, quale stupido servitore hai cercato. Qui c’erano una ventina di giovani che avevano finito la maturità, che mi avevano riconosciuto, il loro cardinale. E io non ho avuto nessuna parola di minimo interesse”. Avrei potuto chiedere com’era andata la maturità. Niente. Perché io avevo il mio breviario. Mai dimenticherò questo fallimento, questa occasione mancata di evangelizzazione. Non avrei dovuto parlare loro del Vangelo, ma dare uno sguardo, senza pensare a ciò che avrebbero fatto in Turchia. Ogni tanto penso che il Signore soffra per noi, così ciechi e duri. Per noi che non abbiamo il cuore di usare il suo sguardo di attenzione e compassione. 
[...]

Come vivere il Vangelo nella società secolare, dove siamo una minoranza. A Vienna posso dire che con quasi il sessanta per cento di matrimoni che finiscono in divorzio, la famiglia cristiana non rappresenta oggi la normalità, bensì l’eccezionalità. 
Cosa vuol dire questa situazione per noi preti? Penso che dobbiamo imparare di nuovo cosa vuol dire vivere nella diaspora. Siamo molto deboli, ma minoranza non vuol dire essere una setta. Per la prima delle nostre assemblee diocesane, io ho formulato cinque sì per delineare la nuova evangelizzazione. Il primo sì è il sì all’oggi, al nostro tempo. Lasciamo la nostalgia degli anni Cinquanta, quelli della mia infanzia, nel villaggio, quando la chiesa si riempiva di gente per tre volte ogni domenica. Tutti in chiesa. Lasciamo la nostalgia per la vitalità dei nostri oratori degli anni Cinquanta e Sessanta. Diciamo sì all’oggi: Dio ama questo mondo, e noi dobbiamo avere uno sguardo di amore, di simpatia al mondo nel quale viviamo. Amiamo l’oggi nel quale viviamo. Il secondo sì e un sì consapevole e deciso a quella che è la nostra situazione. La decrescita dei cattolici, il lasciare tante cose, il veder morire tante cose che amiamo. Un sì al “bel funerale”, come amano i viennesi. Sì, è la nostra situazione. Molte cose moriranno, ma Dio ci ama nella nostra situazione.
Lo studio del popolo d’Israele in esilio è una scuola tremenda per noi, oggi. Ma dobbiamo vedere i segni buoni nel nostro tempo. Anche laddove non c’è chiesa. Il terzo sì è il sì alla nostra vocazione comune di battezzati. Io insisto molto sul sacerdozio comune di tutti i battezzati. Tenere a mente la “Lumen Gentium”, testo capitale, nel quale si parla della relazione tra il sacerdozio comune dei battezzati e il sacerdozio ministeriale degli ordinati. Il Concilio parla di una differenza essentia et non gradu tantum, una differenza di essenza e non solo di grado. Differenza essenziale. Noi non siamo un grado superiore dell’essere cristiano. Il sacerdote ministeriale è essenzialmente a un altro livello del sacerdozio battesimale comune. Quando il cardinale Ratzinger è diventato prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, io ero già membro della commissione teologica internazionale e così ho conosciuto l’usciera del palazzo del Sant’Uffizio, Clelia. Nel 1982 o 1983, ho chiesto alla Clelia com’era il loro nuovo prefetto. E lei: “E’ un vero cristiano”. Ebbene, ecco, se questo si può dire di uno di noi, preti, vescovi, cristiani, è una bella testimonianza.
[...]
L’ultimo sì è al nostro ruolo per la società. E questo anche se siamo minoranza, anche se politicamente in molti campi in Europa non abbiamo più il potere di imporre la legislazione che ci piacerebbe o che corrisponda al diritto naturale. Pensiamo al discorso dell’aborto, dell’eutanasia, alle discussioni drammatiche che chiedono il diritto umano all’aborto, la limitazione della libertà di coscienza dei medici. Nonostante siamo pochi, abbiamo il ruolo del sale, che è sempre in minoranza. Non piacerebbe, infatti, una pasta dove il sale è in abbondanza. Le nostre parrocchie, le nostre comunità, i nostri movimenti, conventi, associazioni, sono una grande rete di carità, di misericordia, di coscienza sociale. E quanto più la rete sociale della società diventa debole, tanto più importante diventa l’impegno cristiano nella società.

Nessun commento:

Posta un commento